Forse qualcuno potrebbe dirmi che siamo noi a caratterizzare lo spazio. Gli trasmettiamo la nostra personalità nel momento in cui lo viviamo: sia esso il posto che consideriamo casa, o quello in cui lavoriamo, o quello in cui stiamo per poco o tanto tempo. A mio parere non ci vuole molto per avviare questo processo di adattamento reciproco.
Recentemente ho vissuto per un po’ di tempo in un luogo che si spera di occupare il meno possibile nella propria vita: la stanza di un ospedale. E lì ho cominciato a riflettere sull’effetto che aveva su di me il fatto di essere lì: in una parola alienante.
L’immaginario collettivo ha più o meno un’idea di quali sono le caratteristiche di un posto letto all’interno dell’ospedale medio: luci a neon, colori che variano dal bianco alle tonalità dell’azzurro/verdino, a volte un simbolo religioso, a volte una tv, letti al più scomodi con biancheria di cotone spesso e magari un po’ ruvido, armadietti, comodini, tavoli, sedie segnati dall’usura così come le stanze stesse.
Tutto molto asettico e standard, occupato a rotazione da persone diverse che lasciano e non lasciano traccia.
Appena entrati ci si sente spaesati un po’ per il contesto che ci porta lì, un po’ perché si è in un ambiente che sentiamo molto distante da noi. Quasi in automatico si cerca di personalizzarlo. Un libro, alcune riviste, un blocco per appunti, il sacchetto degli snack, asciugamani morbidi arrivati da casa - la lista non è lunghissima in realtà.
Nel corso del mio soggiorno mi è stato detto che è meglio non portare molte cose in ospedale.
In realtà non se ne hanno molte. Ma le mettiamo in bella mostra così che ammorbidiscano l’ambiente estraneo in cui siamo costretti a stare, in modo da sentirci quasi abbracciati dagli oggetti che vengono da casa nostra e ci ricordano la nostra quotidianità.
L’unico tratto che mi piaceva di quella stanza era la finestra.
Tralasciando la tapparella malandata - che non chiudevo mai per evitare che mi privasse della possibilità di vedere fuori - ero stata molto fortunata. La città si stendeva di fronte ai miei occhi: il duomo, le ville storiche e il centro sulla destra, e sulla sinistra condomini e case, palazzi di uffici vecchi o nuovi. Veniva illuminata dalla luce calda e variabile del giorno, e di notte era punteggiata dai lampioni e dai fari delle macchine. Piccoli e grandi giardini sempre più verdi con l’avanzare della primavera, gli alberi che ondeggiavano, le nuvole, molto in fondo a nord la linea delle montagne.
La finestra non me l’ero portata da casa ma mi faceva sentire a casa.
Ma, per l’appunto, ero stata fortunata.
La riflessione che mi è sorta spontanea dà il titolo a questo articolo. Lo spazio in cui viviamo influisce su noi e la cosa è reciproca: noi personalizziamo il posto in cui stiamo appena ci mettiamo piede. Magari lo facciamo per sentirci a nostro agio, per sentirci in un ambiente che ci rispecchia e ci motiva. Lo facciamo inconsciamente o consapevolmente, e il risultato di ciò che creiamo influenza il nostro morale e il modo di relazionarci con gli altri.
Cosa ci influenza davvero di uno spazio?
Quanti di noi per esempio hanno riscoperto il luogo in cui vivevano quando ci sono stati rinchiusi per tre mesi nella primavera 2020? E quanti hanno deciso di modificarlo o cambiarlo dopo quella primavera?
La stanza di un ospedale per me è uno dei simboli di quella primavera e di quanto poco potere abbiamo sugli eventi esterni.
Come sul contesto in cui viviamo, sul cercare di sentirci a nostro agio ovunque siamo.
Penso ai reparti di pediatria, che spesso sono più colorati e gioiosi possibile, compatibilmente con la normativa e le esigenze pratiche dei luoghi di cura.
Anche gli adulti hanno il diritto di vivere la degenza in luoghi degni della persona.
Non sto parlando di cliniche in riva alla scogliera, ma dell’ospedale tipico le cui caratteristiche abbiamo elencato prima. Sarebbe bello poterle cambiare e fare un elenco da qui a qualche anno, che leggendolo faccia pensare ad un qualsiasi luogo di soggiorno o, ancora meglio, al nostro soggiorno, pur rispettando la normativa dedicata.
C’è un motivo per cui sono state fatte certe scelte cromatiche e stilistiche ma, per l’appunto, sono le piccole cose a fare la differenza: il tipo di luce, i materiali utilizzati, la possibilità di avere piante o fiori o libri a disposizione, sistemi semplici per poter contattare chi ci aspetta fuori, accessibili anche a chi non è ferrato con le ultime tecnologie, qualche seduta comoda, snack o bevande a disposizione anche nella camera dei degenti, una radio, la luce naturale che filtra da vetri puliti, una lampada da tavolo per la sera, divisori tra i letti in caso di camere multiple o di necessità.
Come è certo che non vogliamo restare in ospedale più del necessario, è anche certo che in un ambiente confortevole ci sentiamo meglio e non perdiamo la nostra identità di persona.
Sono le “piccole” cose che ci rendono persone.
E l’interior design per me è fatto per questo: trovare soluzioni compatibili in casi sfidanti, che hanno come fine il migliorare l’esperienza della persona nello spazio in cui si trova.
Fai anche tu un elenco di piccole cose che ti strappano un sorriso e ti fanno sentire a casa, e tieni d’occhio la pagina Instagram di Leaf&Timber per conoscere le nostre preferite!
Sono Lisa, architetto, fantasy-dipendente e scrittrice di racconti. Creiamo insieme uno spazio in cui vivere alla tua velocità, dove riunirsi con chi ami e scrivere la tua storia.
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Sono Lisa, architetto, fantasy-dipendente e scrittrice di racconti. Creiamo insieme uno spazio in cui vivere alla tua velocità, dove riunirsi con chi ami e scrivere la tua storia.
...se posso suggerire sull'argomento..."Le case che siamo" e "Le case che saremo" di Luca Molinari...
Un ottimo suggerimento per aprire le nostre "finestre" personali e ricavarne qualche suggerimento utile